Agnelli
Caro
Flavio,
ho
incontrato Paolo, a Bologna, di fronte all’Oratorio di Santa
Cecilia, in via Zamboni. Indossava un maglione beige e dei pantaloni
marroni, a righe, con la catenella dell’orologio a cipolla scendere da un passante dei pantaloni, girare intorno alla gamba e
finire in una tasca.
Il
suo aspetto era discreto tra le espressioni del suo viso, che lo
rendono familiare e discosto.
Ero
in compagnia della mia amica, Paolo si è tradotto in confidenza con
lei, dal primo attimo, aprendosi e raccontandole il messaggio che mi
ha spedito solo ieri, con la prevenzione di un’apertura del tutto
confondibile con lo scherzo: «Si può morire a vent’anni?»
Guardava la mia amica con una comprensione degli occhi che lei sembrava arrossire tra il senso di conciliante accoglienza e l'aria di confidenza che egli evocava.
«Si può morire a vent’anni?» ha continuato mentre lei, guardando verso il porfido, sorrideva. «E tu...» ha indicato verso di me, dicendo, di sé,
se io avrei potuto accoglierlo. O salvarlo.
Lei
ha alzato gli occhi, li ha aperti sulla via e, dopo aver scorso Paolo, dopo aver scorso la piazza, ha sorriso d’un sorriso così dolce che sembrava abbellire il
suo viso. Gli occhi di Paolo si sono accesi per la chiave trovata nel farla sorridere.
«Sai,» ha detto, «a volte mi commuovo per una notizia,
un uccellino. Lo guardo fuori dalla finestra e piango. Non piango per
l’uccellino, no, esso è il pretesto per godere dell'immagine di me
che piange. E mi sforzo pure di piangere per quanto non ne goda.
Così non amo, perché quando si ama anche piangere è il pezzo di un
immenso disegno, ma il mio pianto è solo un pezzo isolato»,
attraversavamo via Zamboni, già raggiungevamo via Marsala, «è un
pezzo isolato e basta: io piango da solo, nel nulla...»
[...]
«Ma io non amo, cara amica,
non amo nulla: non ho sfondo, non ho mari e le mie lacrime sono
morte.»
La
mia amica si è sorpresa: Paolo conosceva le parole del Goethe.
«Oh!»,
ha esclamato e ha sorriso d’un sorriso rastremato nella sua
timidezza; si è legata la sciarpa intorno al collo, il vento era
freddo. Prima che entrassimo in copisteria, ha guardato il
telefonino: «Devo andare!», ma titubava e quando ci ha salutati
sembrava arrossire. Gli occhi le si sono stretti, sembrava dire:
“Ciao... ciao...”, ma non ha detto nulla. È volata verso via
Indipendenza ed è scomparsa quando nella nostra via sono entrate due
auto.
«Hai
visto?» Si è voltato
Paolo.
«Cosa?»
«Il
vento porta via i fiori, li invola.»
Gli
ho spiegato che lei vive in una camera doppia e che sta cercando una
persona con la quale dividere la stanza poiché la sua coinquilina ha
terminato il corso di studi. «Lei è rimasta sola e non riesce a
pagare l’affitto. Per questo è andata via di fretta. Aveva un
appuntamento con una ragazza che forse le affitterà il posto letto.»
«Come
si chiama?»
«Margherita.»
«Margherita,
il nome della tua amica... Era una regina, ma lei è così piccola. Oggi sarai tu la mia regina. Io farò il cavallo, potrai dirmi dove
portarti, strigliarmi quanto vorrai, farmi capire che se non salto,
se non ti porgo la schiena, se non corro mi devi uccidere. Diamine,
non si uccidono così anche i cavalli!» e ha riso vedendomi ridere
per la citazione e; sì: anche perché l'ho immaginato cavallo.
«Ma
io non amo più,» ha detto mentre lasciavamo la copisteria.
II. Siamo andati a casa mia.
Ho recuperato due maglie che volevo gettare, Paolo era contrario:
sperava in un cassonetto della Caritas. Non sapevamo dove trovarne.
Abbiamo
domandato all’edicolante, che ci ha spediti in piazza Aldrovandi:
«Là... Forse là c’è qualcosa... là... là…»
'Là'
però non c’era nulla, solamente una strada che non conoscevo.
Abbiamo domandato ad uno spazzastrade e lui e una signora hanno
parlottato tra loro, la signora era seduta su una panchina e si è
incuriosita all’udire la nostra domanda. Con lo spazzastrade si è
provata di aiutarci: «Di qua, di là, forse dentro le mura, chissà…»
E lo spazzastrade: «Trovo certi sacchi, a volte, pieni di roba –
indignato di cuore – e noi li dobbiamo buttare con tutto il resto.»
Abbiamo scosso la testa tutti quanti. «Forse in chiesa, sì, in
chiesa, ad un parroco. Loro sanno a chi darla!»
Eravamo
felici, abbiamo ringraziato e ci siamo voltati verso la Chiesa dei
Servi.
Camminando
al centro della strada, mi sembrava che donare appena una maglietta
ristretta, un’altra maglietta e un paio di calzini, che certamente
ho tolto dalla scatola delle scarpe, fosse qualcosa per cui
vergognarmi. C’era anche un fazzoletto, che ho tolto assieme ai
calzini. Improvvisamente ho immaginato Paolo con indosso una delle
mie magliette... Nel confidargli la mia fantasia avrebbe sorriso, ma
che danno avrei fatto! Non ho pensato né creduto che mi sarei, lì
per lì, con la mia confidenza, compromessa: «Questa maglietta
potrebbe starti bene!» ho detto.
Oh,
Flavio... Come sono avventata. Mi ero già scordata delle parole di
Paolo, dei suoi messaggi. Cosa mi è saltato in mente?
Le
persone si svelano nel racconto delle loro fantasie, scriveva,
porta le persone a raccontarsi attraverso queste e capirai molto
più sul loro conto che chiedere loro: quale dolore ti ha toccato,
quale rimpianto...
Ed
io gli ho confidato la mia fantasia, mi sono raccontata, mi sono
aperta senza tenere più alcun segreto per me. Segreto che rende gli
uomini fedeli. Perché gli uomini ti sono fedeli fintanto che sanno
di non conoscerti.
«Non
trattenere la tua ricchezza:» mi ha detto Paolo, «liberala. Più la
libererai più ne creerai.»
A
questo punto sono caduta.
III. Abbiamo attraversato la
strada e siamo entrati nella Chiesa dei Servi.
Nel buio c’era solo un ometto piccolissimo, al centro
della navata, tra il portale e il presbiterio, che si piegava e
spostava i banchi per allargare il passaggio tra le fila. Da questa e
dall’altra parte della navata, spingeva i banchi verso i pilastri
laterali, poi si fermava, controllava che fossero allineati, e si
rivolgeva verso la fila successiva. Quando siamo entrati, il
corridoio centrale era largo fino a metà, poi si stringeva dove i
banchi non erano ancora stati spostati.
«E
se vivessi qui?» ha detto Paolo sussurrando (la chiesa era enorme).
E ha sussurrato ancora: «Una seggiola, io seduto e chi entra…», e
ha provato la posizione della sedia, l'ha mimata, lui seduto, e con i
gesti ha inventato la gente che entrava in quell’enormità, con lui
al centro simile ad un vecchio saggio. Tutto intorno era l’altezza
delle colonne, il marmo secolare, la grandiosità imponente dell’arte
religiosa.
«Mi
verresti a trovare?» ha domandato.
«Non
lo so…» ho risposto.
«Ah,
così non mi verresti a trovare...» ha detto mostrandosi
indispettito.
Abbiamo
domandato all’ometto, gentilissimo, scoperchiando la scatola delle
scarpe, che reggevo sottobraccio, davanti ai suoi occhi.
«Oh...
no, no, qua il parroco non c’è. Provate a destra, dall’altra
parte della strada, sotto i portici: là c’è la Chiesa della
Caritas… Provate là... sì... là…» E siamo corsi fuori dalla
chiesa, oltre la strada, abbiamo preso i portici, siamo saliti per
Strada Maggiore, verso Porta Mazzini (Paolo non conosceva l’altra
chiesa), ed ho detto: «Dovrebbe essere quella, guarda!»
«Se
vedi una spada è una chiesa.»
Una
delle quattro statue sul cappello del sagrato possedeva una spada.
«Perché
ha la spada?» ho domandato.
«‘Non
sono venuto a portare la pace, ma la spada…’» mi ha risposto.
«Poi le chiese hanno sempre una spada da qualche parte...», ha
detto sorridendo nel mentre che attraversavamo la strada guardando la
chiesa, che ombreggiava su due Carabinieri e un ragazzo in maglietta
bianca che si trovavano al di qua della carreggiata.
La
chiesa era piccola, chiusa, senza maniglie. Solo i portoni grandi. Li
abbiamo spinti con le mani e abbiamo desistito perché erano
sigillati, trovando dei campanelli della Compagnia dei Poveri
Vergognosi mentre una signora magrissima, coi capelli a caschetto,
grigi e neri, tutta contenuta e forse timorosa, gironzolava sul
sagrato.
Paolo
l'ha avvicinata e ha parlottato con lei.
«Cosa
c'è?» gli ho domandato appena la signora è andata via.
«Lorenza...»
Paolo mi ha mostrata una faccia triste, «è mancato il parroco.» Il
suo viso era sconsolato, sconfitto, abbiamo riso come bambini mentre
al campanello del diurno non rispondevano e la piccola signora
prendeva una traversa lontana, rinfrancata dalle due parole scambiate
con Paolo, abbattuta nel suo vecchio portamento piccolo.
Abbiamo
imboccato anche noi la via della signora quando non la vedevamo più,
abbiamo ricalcato l'ombra dei suoi passi incrociando un parroco.
Io
non l’avevo visto, ma Paolo sì. Gli ha domandato dove potessimo
recapitare la nostra scatola. Il parroco, con una voce lieve e
sommessa già udita in altri parroci, ci ha indicati alla Chiesa di
San Bartolomeo: «Andate, andate, vi sarà aperto,» e ci ha salutati
rivolgendosi all’uomo ben vestito, suo compagno di strada, un
giovane che sembrava provenire da un’impresa bancaria.
Al
San Bartolomeo non era aperto. Era aperto, sì, ma il parroco non
c’era se non una signora che puliva, che abbiamo atteso terminasse
la sua conversazione al telefono e ci venisse incontro dalla nicchia
della sagrestia.
«Oh
ben, figlioli, sussopra hanno da adoperarsi per i bagni… Un tal
casotto… Ben, ben, non posso prender nulla, son oberata e sussopra
ho da metter mano ancora, figlioli cari. Da metter mano… oh, che mi
perdoniate, figlioli, che mi perdoniate…» E noi la salutavamo.
«Ma, sì, ma sì!» Ci seguiva. «Ma sì, ma sì, che mi si perdoni!
In via Oberdan, là… Proprio la Caritas, sì, la Caritas: là, al
San Nicola, sul fianco... Sì sì, così, per la parte così... Là
le pie vi ascolteranno, là c’è la Caritas: là, figlioli, là, la
parte così, così… Che mi si perdoni... grazie... grazie... là...»
Siamo
corsi verso Via Oberdan con Paolo l’impressione forte che il San
Bartolomeo fosse una chiesa pornografica, così ha detto: «Le tinte
violente, la luce ingombrante, arrogante. L’altra, la Chiesa dei
Servi, era più pudica nella sua imponenza. Era lenta, avvolgente...», ma prima che finisse, ancora
mentre camminavamo per Strada Maggiore, siamo giunti dove una
famiglia stava oltrepassando un cancello sotto i portici, che apriva
ad un cortile di una grande casa. Ci siamo fermati, arrestati: abbiamo lasciato loro
libero il passaggio.
«Come
siete buoni!» ha ringraziato il padre magro, alto, forse tedesco,
che filava in coda alla moglie e alla figlioletta.
'Sì, forse siamo
buoni davvero.' Ho pensato.
IV. I più buoni della città, Flavio, i più buoni! Sì, mi sentivo
buona! Però... Era difficile realizzare la nostra
bontà... consegnare la scatola... Sembrava che la scatola ci costringesse ad un viaggio all'interno della
città. Ho pensato che sia più facile realizzare il male che il
bene.
«La virtù della bontà consiste nel viaggiare.» ha detto Paolo
dopo avergli detto la mia riflessione, considerando per sé quel che
conservavo per me.
Abbiamo
camminato fino alla Chiesa di San Nicola. Mi sono spaventata al
clacson di una motocicletta quando, bloccata dal traffico, sono
rimasta sotto le due Torri, di fronte alla Feltrinelli, per gettarmi
al di qua della strada.
«Ha
suonato a me?» Ho domandato.
«No»,
ha risposto Paolo ridendo, indicando una signora magra, alta, che
tremava alle mie spalle. Tossiva, era sdraiata di fronte alla vetrina
della Feltrinelli, attorno a lei un capannello di persone la
guardava, le parlava, la esortava a rialzarsi.
Abbiamo
svoltato per Via Oberdan, distinguendo la Chiesa di San Nicola;
prendiamo la via e, infilandoci per la 'parte così, proprio così',
siamo rimasti senza di che trovare: un braccio di via tanto più
stretto di una strada, un vicolo giallo e gretto di porfido, e
null'altro.
Un
campanello era appeso all’edificio, su un rientro a sesto acuto,
con la telecamera sopra la grata del citofono e le maschere segnate
dell’indirizzo delle Suore di Carità.
«Adocchiandomi
sovverrà loro,» ha accennato Paolo tirandosi la barba e i capelli
nel premere il campanello, «sovverrà loro: ‘Oh, Gesù!’» E si
è indicato il viso, così simile al Gesù delle false
raffigurazioni, ed ha mosso il viso nel gaudio contrito della
rivelazione prima che udissimo: «Là, là,» ci parlavano dalla
grata del citofono, «là, là: dall’altra parte, oh misericordia,
dall’altra parte, misericordia santissima, sotto la torre, sotto la
torre, misericordia beata, sotto la torre...»
Siamo corsi dall’altra
parte mentre ancora udivamo le parole provenire dal citofono:
«Misericordia... Santa Madre...»
«Là,»
ha detto un signore, «dentro il cortile.»
Siamo
corsi oltre il cancello, nel cortile.
«Qui.»
«Io
non prendo nulla, per carità!» Ci ha bloccati il canonico, bassino,
giunto sulla soglia della guardiola. «Si ha tanta di quella roba, i
magazzini…»
«Ma
sarebbe un peccato...» Abbiamo replicato.
Ho
scoperchiato la scatola stendendo le magliette: «Un peccato…»
«Ma
sì, su, su, va bene, va bene. Terrò da parte.»
«Grazie,
grazie!» E abbiamo salutato. Io poco perché l’omino non esaudiva
il nostro desiderio.
Paolo,
sulla strada, mi ha detto: «Lorenza, un convento... Basta poco,
basta dire: ‘è peccato, è peccato...'» e, voltandosi per
guardarmi, mi ha detto ancora: «Poi, se a dirti ‘è peccato’ –
ha indicato il proprio viso – che si accompagna con
la Maddalena...»
Ma
penso ancora alle parole... Alle parole, al viso... "Morire a
vent'anni, io non amo."